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Home Alimentazione e Salute Alimentarsi bene

La fame finta indotta dai cibi industriali “ingrassanti”

Il coronavirus ci costringe a capire cosa mangiamo, ma certi ingredienti creano dipendenze dal cibo simili alla droga

by Caroline Susan Payne
27 Ottobre 2020
in Alimentarsi bene, Alimentazione e Salute, Ecologia della mente
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La fame finta indotta dai cibi industriali “ingrassanti”

assorted junk food

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(con la collaborazione di Roberto Lessio)

Con la pandemia sta progressivamente crescendo il numero di persone che prestano molta attenzione a cosa mangiano, visto che i decessi provocati dal coronavirus interessano soprattutto persone con patologie pregresse: tumori, diabete e malattie cardiovascolari, in particolare. Patologie dove proprio l’alimentazione, insieme allo stile di vita, gioca un ruolo importante. Visto anche l’aumento del consumo di cibi biologici, è chiaro che i consumatori stanno diventando sempre più diffidenti verso i cibi industriali e il “cibo spazzatura”. Questo articolo spiega perché questa diffidenza è ben riposta. Nella convinzione generale il problema di avere una relazione normale con il cibo interessa non tanto il nostro stomaco, ma soprattutto la nostra volontà, ovvero la nostra incapacità di opporci alle nostre debolezze. Chi è in sovrappeso, ad esempio sposso è convinto che essere grassi o meno sia un destino inevitabile dettato dai nostri geni: “mamma era grassa, lo sarò anch’io!”. Invece la scienza, proprio quella stessa che parla tanto di genetica, ci rivela che la fame, l’eccessivo appetito non sono innati, ma possono essere indotti, trovando terreno fertile là dove c’è una persona rassegnata.
Le ultime scoperte scientifiche dimostrano che se si continua a mangiare anche quando si è sazi, questa “necessità” può avere cause esterne ed essere provocata con l’assunzione di alcuni tipi di cibo (probabilmente fatti apposta) piuttosto che da altri. Quando si allunga la mano inconsapevolmente per ingerire sempre e proprio quel tipo di cibi, spesso ricchi di grassi, probabilmente siamo in presenza di alimenti prodotti per ingenerare una sorta di dipendenza a livello cerebrale: ci danno piacere per il semplice fatto di assumerli, senza che razionalmente sappiamo valutarne le controindicazioni. Proprio come avviene, una volta diventati “dipendenti”, con le droghe, l’alcool, la nicotina e alcuni tipi di farmaci.
Un gruppo di ricercatori del Southwestern Medical Center di Dallas (Texas – USA) ha dimostrato il fondamentale ruolo della grelina (dall’inglese ghrelin – parola associata al verbo “to grow” – crescere) negli eccessi di alimentazione. La grelina è un ormone gastrico che per circa il 90% viene prodotto dalla parte finale di qualsiasi stomaco animale e umano.
È il cosiddetto “ormone della fame”, che raggiunge il suo picco percentuale nel sangue circa mezz’ora prima dei pasti (quando sentiamo un certo appetito) e decresce dopo circa un’ora dall’assunzione di cibo, per poi risalire nell’imminenza del pasto successivo.  Fino a poco tempo fa si pensava che questo ormone fosse prodotto autonomamente dal nostro stomaco, ma ora si comincia a capire che ci possono essere anche cause “esterne”, introdotte nei cibi proprio per provocare una inesistente sensazione di forte appetito, se non di vera e propria fame persistente.
L’esperimento è stato condotto su animali da laboratorio, ma fa supporre che i risultati siano estensibili agli esseri umani, in quanto sono interessate le stesse funzioni e le stesse zone cerebrali, quelle che predispongono le risposte fisiologiche interne ed esterne all’organismo. È stato scoperto che alte dosi di grelina nel sangue portano gli individui a continuare a mangiare cibi “piacevoli” anche se sono già sazi, accumulando quindi grasso corporeo. Inoltre tendono a recarsi in quei luoghi che già gli hanno dato questa piacevole sensazione nel passato.
Per l’esperimento, sono stati condotti alcuni test comportamentali. Inizialmente è stata somministrata della grelina aggiuntiva nel sangue delle cavie. Si è verificato che queste, pur non essendo affamate e dovendo scegliere tra due stanze dove in precedenza avevano trovato del cibo, preferivano decisamente quella accoppiata con una dieta ad alto contenuto di grassi. Le cavie a cui non era stata somministrata grelina, non hanno mostrato alcuna preferenza. L’esperimento ha funzionato anche quando nella “stanza dei grassi”, le stesse cavie non trovavano alcun cibo. C’era quindi anche un effetto apprendimento; come se andando solo in quella stanza, le cavie sapevano che avrebbero trovato quel tipo di piacere; nell’altra era inutile cercarlo. Mentre gli animali che non hanno ricevuto la grelina aggiuntiva, hanno rinunciato molto prima alla ricerca di cibo, sia “grasso” che non.
I ricercatori hanno anche scoperto che, bloccando l’azione di questo ormone gastrico, le stesse cavie smettevano di recarsi nella stanza associata ai cibi grassi. La correlazione tra alte dosi di grelina nel sangue e la sensazione di piacere nell’assunzione di cibo in eccesso, rispetto cioè alle reali necessità fisiologiche, risulta quindi chiara.
E visto che l’ormone e gli organi cerebrali interessati sono identici anche negli esseri umani, i ricercatori ritengono che siano condivisibili anche le sensazioni presenti nei cosiddetti “centri del piacere” nei nostri cervelli, gli stessi interessati dalle altre forme di dipendenza.
Ma un’altra recente ricerca, condotta presso l’Università di Cincinnati (sempre USA), condotta dal Prof. Matthias Tschöp, ha dimostrato che la produzione della grelina nel sangue viene attivata anche e soprattutto da alcune componenti del cibo che mangiamo. In particolare un eccesso di acidi grassi stimolerebbero un’altrettanto eccessiva produzione di grelina. Questo ormone normalmente ha la funzione di un meccanismo adibito allo stoccaggio di riserve energetiche, che formano i grassi corporei a partire da quelli presenti nel cibo: si accende quando le riserve scendono e si spegne, anche se non del tutto, quando le riserve sono ripristinate. Aggiungendo acidi grassi al cibo, sembrerebbe che il meccanismo “non stacca mai”. Quindi, secondo i ricercatori americani, alti livelli di grassi presenti nei cibi determinerebbero a loro volta alti livelli di grelina nel sangue. Alti livelli di grelina determinerebbero a loro volta un persistente bisogno di piacere nell’assumere proprio quei tipi di cibi.  Come un cane che si morde la coda all’infinito. Bilancia e sensi di colpa poi, completano il disastro. La fame (quella vera) e l’appetito in tutto questo meccanismo c’entrerebbero poco o nulla.
Il cattivo rapporto con il cibo, l’obesità, quindi, sono indotti: dipendono da fattori esterni a noi, che la scienza comincia ora a svelare, e da fattori interni a noi,  più psicologici che genetici, e che, come tutte le dipendenze, vivono e si potenziano sulle nostre debolezze. Un mix di cause interne-esterne che ha generato la più grave emergenza sanitaria del mondo occidentale, quella legata appunto al consumo del cibo: un consumo esagerato, ma soprattutto disordinato.
Le “malattie del cibo”, quindi, vanno combattute accostandosi agli alimenti in maniera più sana, cercando dentro di noi il malessere che ci indebolisce, e magari leggendo anche bene le etichette dei prodotti che acquistiamo.

Mangiando più lentamente si assapora di più il cibo, masticando più a lungo si digerisce più facilmente: queste cose le sappiamo bene tutti, ma durante i pasti continuiamo a sorprenderci troppo veloci e ingordi e, senza che ce ne accorgiamo, mandiamo giù bocconi quasi interi del cui sapore spesso non abbiamo nemmeno il ricordo. Ma mangiare piano e bene dà anche un altro importantissimo e immediato vantaggio: i recettori del gusto riescono ad inviare al cervello informazioni più dettagliate e noi raggiungiamo prima il “senso di sazietà”. In pratica se mangiamo il giusto e mangiamo bene, gusteremo di più i sapori e saremo più appagati e in salute.

Negli Usa è obeso il 34% dei maggiorenni, più di un terzo della popolazione adulta. E se le malattie legate alla sovralimentazione sono ormai la prima causa di morte, era già sconcertante prima della pandemia la notizia che il 12,5% degli statunitensi non aveva i soldi per comprarsi il cibo e ricorrevano sempre più spesso ai food stamps (buoni federali per l’acquisto di cibo). Oggi sicuramente questa percentuale è aumentata.

Tags: alimentazioneecologia della mentesalute
Caroline Susan Payne

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