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Home Alimentazione e Salute

Agricoltura senza agricoltori: l’ultima tappa della follia umana

Il lavoro umano millenario della terra sostituito con robot, droni e macchine autonome

by Roberto Lessio
19 Settembre 2020
in Alimentazione e Salute, Lavoro e Occupazione, OGM, Usare bene le risorse
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Agricoltura senza agricoltori: l’ultima tappa della follia umana
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Un gigantesco scanner montato su una gru del peso di oltre 22 tonnellate che va avanti e indietro lungo un binario che costeggia il terreno coltivato. E’ stato programmato per monitorare giornalmente lo sviluppo delle piante sottostanti, una per una, con lo scopo di verificare se stanno crescendo alla velocità giusta, se hanno bisogno di essere trattate con qualche pesticida o di essere difese dall’attacco di qualche insetto. L’impianto si trova in una zona (la città di Maricopa) che è circondata dal deserto dell’Arizona (USA) e le piante controllate sono prodotte con semi OGM (Organismi Geneticamente Modificati) per resistere alla siccità. Tra le varie funzioni della macchina ci sono quelle di controllare quali sono i genotipi dei semi più promettenti e, attraverso l’ingiallimento delle foglie, fino a quale livello riescono a tollerare i pesticidi testati.

Un piccolo esercito di robot autonomi, un vero e proprio sciame, che hanno tutti lo stesso nome (Prospero) e che vanno in giro per i campi, seguendo un programma preimpostato su un computer che gli indica dove scavare i buchi, depositarvi dentro i semi e ricoprirli con lo strato di terra “giusto” per far germogliare gli stessi semi, comunicando tra di loro tramite segnali all’infrarosso.

Una flotta di droni che si alza in volo ogni giorno per andare a controllare se l’umidità del suolo di coltivazione dove sta crescendo una determinata coltura ha bisogno di irrigazione e se del caso la fa partire il sistema autonomamente per mezzo di un computer.

Un trattore che si “rifiuta” di essere riparato dal suo proprietario perché un mini computer interno gli dice che i pezzi per la sostituzione non sono quelli originali dell’azienda che lo ha prodotto e glielo ha venduto e/o se il meccanico non è quello di fiducia della stessa azienda.

Un altro trattore (ma può anche essere lo stesso) sprovvisto di cabina di pilotaggio, del volante di guida e del sedile per il conduttore, perché si controlla da solo e i suoi percorsi sono programmati dal medesimo computer. E se salta il collegamento a Internet? Non si sa.

A queste tecnologie sono state definizioni criptate che dicono tutto e nulla: scannerizzazione del terreno per la fenotipizzazione automatizzata all’aperto, agricoltura di precisione, agricoltura georeferenziata basata sui dati. Ma di fatto servono solo a chiudere il cerchio: gli agricoltori e i contadini, in particolare quelli più attaccati alle loro tradizioni e tipicità produttive, non servono più a niente. Dopo averli costretti gli ad acquistare i loro pesticidi e i loro semi OGM che resistono solo a quei pesticidi, adesso le multinazionali del settore stanno scatenando l’ultima battaglia per costringerli ad utilizzare i loro servizi (assicurazioni meteo, programmi di coltivazione, alleanze commerciali con la grande distribuzione) collegati indissolubilmente alla raccolta dei loro dati. E se non sono in grado di sostenere economicamente anche questa spesa o non vogliono farlo, si togliessero di mezzo e tanto meglio. Una volta falliti, i loro terreni verrano acquistati dalle stesse multinazionali e lavoreranno alle loro dipendenze … se lavoro ci sarà.Naturalmente tutte queste tecnologie vengono presentate con aspetti molto allettanti (come sempre, del resto): allevieranno il lavoro fisico degli agricoltori, meno rischi sulla produzione, raccolti più abbondanti e avere più tempo da dedicare alla parte economica della loro attività. Non a caso le stesse multinazionali hanno letteralmente rastrellato in tutto il pianeta negli ultimi anni quante più start-up tecnologiche possibile che già si occupavano di questi servizi: società robotiche, piccole aziende che producono sensori del suolo, società di previsioni meteorologiche, di programmi per la fertilizzazione e interventi fitosanitari di precisione, di programmi di sostituzione di parti meccaniche per le riparazioni, ecc.

Dunque, presto la cultura millenaria dei contadini, oltre alla conoscenza degli agricoltori della biodiversità della propria terra, verranno sostituite dalle produzioni standard realizzate con la raccolta di dati (droni, sensori del suolo e satelliti geo-localizzati). L’analisi di quei dati però difficilmente l’agricoltore potrà gestirli e interpretarli da solo e quindi dovrà affidarsi a dei professionisti esperti che magari i suoi campi neanche li hanno mai visti, né sanno dove si trovano. Ma saranno comunque loro a stabilire cosa produrre e cosa fare valutando interpolazioni e interferenze. Il cerchio si chiude con le immancabili raccomandazioni che questi esperti forniranno all’agricoltore e che, guarda caso, faranno tutte riferimento alle nuove tecnologie “big data” collegate a Internet. E non si tratta di una ipotesi campata in aria. La banca d’affari Goldman Sachs prevede che entro il 2050 questi metodi di coltivazione ipertecnologica e sostitutiva del lavoro umano, potrebbe valere 240 miliardi di dollari l’anno. E se lo dice uno dei colossi di Wall Street abituato a scommettere sui mercati delle materie prime agricole e alimentari, c’è poco da discutere.

Questo stato di cose è estremamente preoccupante, ma non è detto che sia definitivo, malgrado l’imponenza delle risorse economiche messe in campo dalle multinazionali. La guerra per l’autodeterminazione alimentare è ancora in corso e per certi versi siamo solo all’inizio. Ci sono già tante esperienze che hanno deciso di dare battaglia anche a questo aberrante modalità di produrre il nostro cibo. Ne riparleremo presto su questo sito.

Tags: agricolturaalimentazionelavorotecnologia
Roberto Lessio

Roberto Lessio

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  1. Pingback: Calcolando l’impronta ambientale delle multinazionali, la fame resterà per sempre – Natura e Futuro
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